Tribuna precongressuale/Necessario parlare al Paese con il linguaggio della verità

Coraggio delle idee e disponibilità al rinnovamento

di Widmer Valbonesi

Dal 1993 sostengo che il sistema bipartitico e il sistema bipolare non avrebbero attecchito nel nostro paese, perché avevano origini culturali e storiche che non lo avrebbero consentito.

Qualche sprovveduto, con un ragionamento forzato, riteneva che il bipolarismo, nel nostro paese, fosse sempre esistito anche nella prima Repubblica, dimenticando che esso era il frutto di una scelta politica che si realizzava in Parlamento e non direttamente sulle schede elettorali col nome del candidato premier, violentando la Costituzione.

L’esclusione del PCI dal governo del paese era il frutto di una scelta di collocazione politica internazionale e di una visione della società che non consentiva a quel partito di fare alleanze maggioritarie in Parlamento. La Repubblica parlamentare e il proporzionalismo davano alla politica il compito di determinare il governo del paese, ma garantendo un meccanismo di rappresentanza politica a tutte le componenti culturali che erano presenti e che avevano contribuito al processo di costituzione della Repubblica italiana.

Analisti interessati sostennero nel 1993 che il proporzionalismo aveva spinto alla degenerazione dei partiti e della politica, per cui era necessario modificarlo per garantire maggiore governabilità. In realtà certi partiti avevano inteso la politica e il governo come esercizio per conquistare il potere e non come lo strumento di rappresentanza dell’interesse generale. Quindi sono i partiti, se cessano di essere strumento al servizio del governo dell’interesse generale, come prevede l’art. 49 della Costituzione, l’elemento degenerativo; non il sistema elettorale o istituzionale.

Lo dimostrano questi anni di bipolarismo forzato. Addirittura si è tentato di incentivare il bipartitismo con una legge elettorale, fregandosene del rispetto delle minoranze del paese e dando vita a quei due aborti politico - culturali che sono il PDL e il PD. A destra come a sinistra, modificando la legge elettorale delle elezioni europee e politiche, si volevano ridurre i partiti a due.

Se a destra questo era comprensibile per l’egemonia esercitata da Berlusconi, che azzera la possibilità di dialettica politica e culturale e piega tutto al pragmatismo del contingente (vedi il dibattito interno al PDL dove la dialettica, sale della democrazia, diventa per Berlusconi eversiva e addirittura cancerosa per la vita interna del suo partito); a sinistra si è coltivata l’idea, con la nascita del PD, che si potessero fondere culture politiche così diverse attraverso una sorta di "meticciato "che - attraverso diverse inseminazioni - arricchiva il pensiero democratico.

La realtà è che la versione presidenzialista alla Berlusconi, epurante la dialettica interna, dà come sbocco una democrazia peronista; e "il meticciato" del PD porta ad un pensiero unico che, non alimentandosi nella dialettica pluralista, diventa privo di quegli elementi critici sui quali si selezionano le classi dirigenti. Ciò porta al prevalere di élite di potere fatte di "yes men" e di incapaci.

Il bipolarismo è fallito - come ha detto D’Alema a Franceschini, Veltroni e Bersani - non perché non fosse in grado di garantire maggiore stabilità e governabilità, ma perché, per come è concepito, non ha determinato nessuna capacità innovativa né di riforma.

Il bipolarismo, oltre alle degenerazioni evidenti che ha portato nel tessuto democratico del paese - e di cui l’astensionismo rappresenta il dissenso più evidente - nel momento in cui si sostanzia dell’unico contenuto "Berlusconi sì, Berlusconi no", determina anche una incapacità di elaborazione innovativa che indebolisce le possibilità di sviluppo del paese.

Soprattutto determina un paradigma istituzionale dove il riferimento non è più il patto costituzionale repubblicano, che dovrebbe garantire non solo il quadro di garanzie entro cui si sviluppa la vita politica, associativa e culturale del paese, dando quindi la sensazione di un popolo che ha consapevolezza di valori comuni e dell’interesse nazionale; ma esso diventa una lotta fra i poteri, fra i territori, fra i sindacati, fra le organizzazioni dell’impresa, lotta per schierarsi con una parte, ricercando legittimazione di parte o corporativa. Non più quel patto costituzionale che delinea l’immagine di una nazione e che ha consentito, in momenti di pericolo e di grande difficoltà, di stringersi uniti per la conquista del bene comune.

Ecco perché serviva e serve il ruolo dei partiti, che, pur partendo da visioni di modelli di sviluppo diversi e da culture diverse, nella sintesi parlamentare, dando ruolo determinante al confronto e alla politica, determinavano una crescita complessiva del paese. Le difficoltà stavano nel fatto che il PCI, con la sua collocazione internazionale, di fatto non partecipava al gioco di governo democratico e rendeva impossibile l’alternanza, rendendo più asfittico anche il crescere della democrazia; e centrale ed egemonico il ruolo moderato e corporativo della DC.

Il ruolo riformatore, determinato per larga misura dalle forze laiche minori, non trovava grande spazio, stretto fra l’eredità corporativa della DC tramandata dal fascismo e dalle rivendicazioni categoriali e massimaliste espresse dal PCI; e tuttavia il ruolo determinante che tali forze esprimevano, consentiva di fare politiche di interesse generale e di innovazione.

Oggi la mancanza di forze laiche, liberaldemocratiche e repubblicane, eredi di una tradizione di "patriottismo costituzionale" che sia di stimolo, per fare in modo che la politica mantenga le caratteristiche di rappresentanza dell’interesse generale, costituisce il deficit democratico di questo paese.

Non il liberalismo becero di chi vuole l’individuo e la società senza legge od interferenza, ma il liberalismo corretto dal repubblicanesimo che introduce la libertà come non dominio, ma anche la libertà che si garantisce con un patto costituzionale repubblicano che, appunto, introduce il senso del limite, il dovere verso il bene comune, che articola lo Stato, ma ne mantiene l’unità nazionale e patriottica, non in senso nazionalistico ma di appartenenza alla stessa nazione.

Un repubblicanesimo liberale che insegna la virtù civile e la cittadinanza come elementi cardine del vivere civile e della convivenza di uomini diversi, ma rispettosi del patto costituzionale.

Voglio qui riprendere le parole di Gian Enrico Rusconi, che ne ha delineato le caratteristiche nel saggio "Perché il repubblicanesimo". Dice Rusconi: "In questo contesto non è fuori luogo parlare, anche retrospettivamente, di ‘patriottismo costituzionale’. Questa espressione è stata coniata in tempi recenti ed è stata usata con significati molto varianti. La riprendo qui dandole il significato specifico di adesione ad una Costituzione nella quale lo statuto della cittadinanza è qualificato non soltanto dal catalogo dei diritti e dei doveri individuali, ma dal riconoscimento che i vincoli imposti da quella Carta presuppongono e riportano ad una comunanza di storia e cultura, chiamata sinteticamente nazione. In questo senso patria e Costituzione rappresentano valori convergenti. Questo patriottismo costituzionale e/o repubblicano non si alimenta di particolari motivi di orgoglio per presunti caratteri di primato, di grandezza o per altri ipotetici talenti speciali del popolo italiano. E’ piuttosto il ritrovarsi in una storia comune, fatta anche di errori e di brutali contrasti sociali e politici - una storia tuttavia che ad un certo momento trova il suo punto fermo in un patto tra cittadini. Questo patto assume la forma della Costituzione democratica, diventa la base di una nuova convivenza e rinnova su basi nuove il senso di appartenenza. In questa ottica il patriottismo costituzionale repubblicano accoglie in sé e invera quello tradizionale. Anche se la Costituzione non è una tavola di diritti ritrattabile o manipolabile a piacimento, il patriottismo costituzionale non va confuso con il dogmatismo o il bigottismo della Carta esistente. E’ un atto di fiducia nella capacità dei cittadini di rinnovare il patto politico modificandone consensualmente, quando è necessario, alcune sue formule istituzionali. Torniamo alla situazione odierna. Le ragioni per cui molti italiani non si identificano con la loro Repubblica riportano tutte ai difetti di funzionamento del sistema politico e amministrativo – per tacere dei fenomeni patologici della corruzione. Da qui il circolo vizioso tra inefficienza del sistema politico - istituzionale e mancata attivazione del senso di una comune appartenenza come risorsa della democrazia. Il superamento di questa anomia civile e il rinnovamento del patto politico non possono essere attesi dalla semplice modifica di meccanismi elettorali o attraverso ricompattamenti e nuove affiliazioni fiduciarie particolari. In particolare, nessuna incisiva riforma istituzionale (nella doppia direzione del rafforzamento dell’Esecutivo e di una ristrutturazione politico - amministrativa di tipo federale) sarà vitale senza l’attivazione di un patriottismo repubblicano. Come e più di quello tradizionale, non ci si può aspettare che il nuovo repubblicanesimo nasca spontaneamente: presuppone un esercizio critico di riflessione politica e storica. Deve andare a fondo ai nodi cruciali storico-politici da cui è nata la repubblica e da cui trae la sua legittimazione: processi di consenso e disaffezione dal fascismo, pluralità delle componenti dell’antifascismo storico e armato, trauma della guerra perduta, guerra civile - e poi ancora comunismo/anticomunismo, compromessi del nuovo ordine costituzionale, ecc. Senza dimenticare i fenomeni dei nostri giorni - dalla fine politico-ideologica del comunismo alle tensioni separatiste nel nostro paese - che hanno riacutizzato la questione della rilegittimazione della Repubblica. La riproposta del repubblicanesimo non si muove semplicemente su un piano di etica politica (tantomeno come appello edificante alle ‘virtù civiche’), ma presuppone (o invita ad) una vera e propria teoria della politica. Si tratta infatti di rimettere a fuoco teoricamente il nesso necessario in una democrazia tra impianto istituzionale e motivazioni di comportamento dei cittadini. Il repubblicanesimo è un modo di sentire e praticare la democrazia. E’ una teoria della cittadinanza considerata dal lato delle motivazioni e del vincolo collettivo storicamente cresciuto in una esperienza comune, che la tradizione moderna chiama ‘nazione’. A questo vincolo è attribuita la funzione di integrazione basata sull’attivazione di virtù repubblicane da non considerare buone qualità umane, caldamente raccomandabili ai cittadini, ma espressione e funzione della razionalità del civismo."

Governare la complessità

Il mondo repubblicano, liberaldemocratico che si è arricchito del contributo portato da Mazzini con l’associazionismo, ma anche dal metodo di Ugo La Malfa, dagli strumenti di governo come la politica dei redditi e la programmazione, per salvaguardare l’interesse generale, il meridionalismo di Francesco Compagna, la moderazione istituzionale di Spadolini, adesso deve aprirsi alle elaborazioni anche del repubblicanesimo e del liberalismo europeo e mondiale che in questi trent’anni hanno fatto passi enormi come teorie capaci di governare la complessità del mondo globale. Dalla conoscenza scientifica dell’Umanità come elemento di riferimento per la salvaguardia del pianeta, della modernità e del progresso, a tutto il tema della laicità e della convivenza civile e religiosa. Un congresso a tesi deve sviluppare quattro o cinque temi concreti, su cui essere da stimolo per il governo del paese, ma la grande forza di un congresso aperto, che voglia recuperare la diaspora e aprirsi ai giovani e agli scontenti di questa asfittica politica personalizzata su Berlusconi demone o santo, deve approfondire le ragioni del vivere comune, delle trasformazioni, delle prospettive per le nuove generazioni, che solo una politica fiscale nuova e coraggiosa può garantire, della politica estera, capendo che oggi la frontiera è il mondo e non più la guerra fredda fra l’area Nato e il patto di Varsavia.

Coraggio delle idee

Un congresso a tesi è l’unico modo per uscire dalle secche di uno scontro sugli schieramenti dove i repubblicani tornerebbero a dividersi e dove nessuna politica di rinnovamento della classe dirigente sarebbe possibile. Il coraggio delle idee e la disponibilità al rinnovamento senza disconoscere i meriti di chi ha tenuto in vita con grandi sforzi e sacrifici l’esistente, è il modo migliore per andare verso il futuro. Deve in definitiva volare alto, come solo una forza politica che ha storia, radici, e cultura può fare, senza paura di parlare il linguaggio della verità al paese e trovando il senso di una militanza comune che si identifica nei contenuti del "patriottismo repubblicano", più che nello schieramento di destra o di sinistra che ne fanno scempio. Se gli inglesi si accorgono che ci può essere un’altra via, dopo sessant’anni di conservatori e laburisti, perché gli italiani, prima o poi, non dovrebbero innamorarsi del paradigma repubblicano?